Frammento – 1

Quel venerdì mattina Teresa aveva disattivato la sveglia prima ancora che suonasse. La trentanovenne italiana aveva trascorso la notte precedente praticamente in bianco. La sera prima si era messa al letto poco prima delle undici ma non aveva preso subito sonno. Si era rigirata sotto le lenzuola per più di due ore. Era riuscita ad addormentarsi solo verso l’una e un quarto, per poi risvegliarsi più volte nelle ore successive e sempre in preda all’ansia. Ogni volta che si appisolava rifaceva il medesimo incubo. Alle cinque si era arresa e aveva deciso di alzarsi e prepararsi per andare a correre.
Indossava una tuta e scarpe da ginnastica quando entrò in una caffetteria in Adams Street, poco dopo le sei. La clientela era composta principalmente da operai e autisti. Erano persone che lavoravano tanto e si divertivano poco. Erano padri e madri di famiglia, persone che chiamavano “tempo libero” anche quei momenti dovevano dedicare al bucato, alle commissioni o all’educazione e alle attività parascolastiche dei figli. Erano individui dall’aria perennemente stanca ma anche serena. Era gente che nonostante tutto sembrava felice. Era la working class del Dorchester. Perciò Teresa si sentì un pesce fuor d’acqua. Lei non aveva una famiglia, aveva un gatto e un letto matrimoniale che ogni tanto condivideva con il marito di un’altra donna; le volte in cui era stanca non pativa certo i dolori di chi trascorreva le proprie ore a spostare pesi; non aveva un’aria serena, né felice. L’italiana era una donna desiderata, una designer stimata e, soprattutto, una persona a cui non mancavano certo né il tempo, né i soldi, né l’occasioni per poter fare o vedere qualcosa di assolutamente interessante. Aveva amici, o presunti tali, che la invitavano spesso sulla loro barca a vela o in un qualche chalet di montagna, poteva prendere le ferie quando preferiva e un viaggio aereo dall’altra parte del mondo, con annessa permanenza in un qualche albergo a cinque stelle, non l’avrebbero certo ridotta sul lastrico. Eppure la sua infelicità nasceva dalle scelte che l’avevano portata a quell’esistenza apparentemente invidiabile. Scelte che l’avevano resa una professionista rinomata e una donna popolare, ma anche una pessima persona.
«Buongiorno, Teresa» la salutò la cameriera polacca.
«Ciao, Ewa»
«Il solito frullato?»
«A meno che non vuoi leccarmi la tu-sai-cosa, va bene il solito frullato» replicò caustica l’italiana.
La cameriera sorrise. Per abitudine, fingeva che il sarcasmo fosse ironia, e che l’ironia fosse un segno di affetto. In sintesi, era una donna paziente. Ciò che in fondo non era mai stata Teresa.

Vicini di casa.

Si poggiò sulla finestra di camera mia. Non era una foglia, non era un volatile. Era un ricordo, ed era tangibile. Profumava di Fun Lovin’ Criminals e Kate Bush. Aveva una voce roca e il passo ruvido da batterista in pensione. Non guidava la motocicletta, ma solo perché detestava i cliché. Mi chiese il permesso di bussare ma non glielo concessi. Lo lasciai però fumare. Del resto, le finestre sono lì per i tabagisti.

Masticavo amaro. Lo facevo in Si bemolle, mentre la puntina del vinile ballava sulle note di Shadowplay dei Joy Division. Avevo voglia di bourbon secco, Gitanes senza filtro, riviste porno patinate e patatine fritte nell’olio motore esausto; o semplicemente di un “ciao, come va?” pronunciato da una persona giusta. Sarebbe stato sufficiente anche un qualcuno di non completamente sbagliato. In sintesi, andava bene chiunque, purché non astratto.

Nel frattempo tuoni, o palle da tennis, rimbombavano dal muro sovrastante. Assomigliava a quella strana scena, in quella strana casa, in quello strano film, con quelle strane musiche e quegli attori albini, dove tipo il protagonista afroamericano (ma albino) abitava sotto un pista da bowling. Tipo i fratelli Coen, ecco, ma molto meno geniali e molto meno premio Oscar. Speriamo lo carichino in streaming!

Infine mi venne voglia di cavalcare un canguro. Non ero certo se dopo volessi mangiarlo, ma volevo attraversare il Nilo in groppa a un marsupiale. Avrei voluto il suono di una tromba e un cielo rosso come l’inferno ad annunciare l’apocalisse. Mi sarebbe piaciuto osservare la luna sanguinare e un vecchio sigaro spegnersi lentamente. Il tutto in bianco e nero. Ma questo desiderio di vintage collideva con la mia reflex e il mio mac.

Infine visualizzai l’intangibile. Ero bambino e il calcio era la mia vita. Conoscevo a memoria la data di nascita di tutti i miei campioni e riempivo con le statistiche sportive quello spazio che anni dopo avrei riservato alle droghe. Era un sogno lucido, quello delle notti magiche, interrotto ai rigori contro gli argentini. E Vicini, così ordinato come un vecchio zio e così pacato come un vecchio professore, ci insegnava la prima cinica lezione sul senso dell’esistenza dei perdenti: “siamo stati comunque bravi”.

Virus rinchiusi in coscienza

Il suo affetto passò da qui una mattina di Novembre. Era una donna verde, che si cibava di luce solare e che dispensava veleno nelle ore notturne. Succhiò la mia bile come una pianta assetata e germogliò in un inquieto fiore nero. Rideva spesso, ma lo faceva con erotismo, con il ritmo esorcizzante della disperazione di mezza età. Un’età per tutto, un’età perduta. Un poco come in un brano dei Faith no More e un poco no.

 

Il referto dell’oncologo faceva capolino dai miei sottintesi e lei se ne impossessò. Sfogliò le pagine migliori sottolineando il mio scostante egocentrismo con il suo coerente cinismo. Mi mise in controluce e si specchiò nelle mie paure. Sorrideva, e la faceva con empatia, con il ritmo spiazzante della solitudine adolescenziale. Una risposta per tutto e una risposta per tutti. Un poco come in un riff dei Metallica e un poco no.

Poi si alzò dal letto e disse “wow!” Si rivestì con un vecchio kimono ricamato da richiami lirici indispensabili, non Foscolo, non Leopardi, forse Morrissey e sicuramente Alex Turner, perché eravamo nel 2018, porca miseria!! Si avventò sull’ultimo frame prima che mi addormentassi, sorridendo, in modo da soggiogare il mio subconscio. Ogni sogno presente, il bisogno presente. Un poco un come in un film di Cristopher Nolan e un poco no.

E la sognai. Era bella come era bella dal vivo, o poco di più. Era adorabile e la adoravo. Non volevo che starle vicino, volevo insinuarmi dentro di lei come un virus. Ed ecco il mio errore, ahimè: non puoi pretendere di essere veleno se non accetti l’antidoto. Troppi Battiato in giro che improvvisavano la cura, troppi socratici che si lasciavano avvelenare. Comunque fu sempre meglio che mummificare al buio rinchiusi in dispensa; anzi, rinchiusi in coscienza.

Un poco come quando sono stato felice e un poco no.

… la sindrome di Ted Mosby

Se sei d’accordo, potrei invitarti a casa mia. Va bene qualsiasi pretesto, dal caffè alla scopatina disinteressata. Sarebbe interessante leggere quale scusa inventeresti per rifiutare. Adoro l’imbarazzo che ha sempre caratterizzato le nostre interazioni.
Che dio ti liberi dalle persone come me, verso le quali sviluppi empatia. Non sono abbastanza sbagliato. Del resto, il nostro è un universo principalmente entropico, e senza disordine sarebbe stazionario. Che poi “stazionario” è un sinonimo carino di “noioso”, anche se credo che sia più appropriato “morto”.
Dunque è l’universo che detta la nostra costante distanza autoindotta, la totale necessità di vitalità non empatica.
Un poco come i momenti tristi, che se non li vivi non sai quanto sono belli quelli felici. E certo, forse è una teoria vagamente del Dioporco. Ma è scienza. Tutto ciò che è misurabile è scienza. Il dolore è misurabile. Il dolore si misura in bottiglie di birra.
Soffriamo della sindrome di Ted Mosby, del resto. Stiamo bene single. Ma solo perché quando non lo siamo frequentiamo la persona sbagliata.
Happy Birthday.